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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Johann Wolfgang Goethe, Dalla mia vita. Poesia e verità

[ a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2018 ]

Poesia e verità era fuori catalogo da decenni, irreperibili le vecchie traduzioni di Adolfo Courtheoux (Sonzogno 1886), Emma Sola (Alpes 1929) e Alba Cori (Utet 1957). La nuova, eccellente edizione curata da Enrico Ganni per i «Millenni» lo ripresenta in veste più schietta e aderente, consentendoci di leggerlo finalmente per quello che è: non tanto un’autobiografia, peraltro ben poco attendibile, quanto, a tutti gli effetti, il quarto romanzo di Goethe, dopo il Werther (1774), il Wilhelm Meister (1795) e Le affinità elettive (1809), e prima dei Wanderjahre (1821). «Desidero informarti che sono sul punto di scrivere le mie memorie», scrive all’amica Bettina Brentano nel 1810: «potrebbe venirne fuori un romanzo o un resoconto, impossibile prevederlo adesso». Poesia e verità (1811-14) – o all’inverso Wahrheit und Dichtung, come suonava in un primo momento un titolo che oggi potremmo tradurre con Realtà e finzione – è in effetti il primo tassello di un vasto esperimento romanzesco per il quale Goethe si serve di materiale autobiografico, trattando, dopo gli anni della giovinezza 1749-75, il Viaggio in Italia del 1786-88 (1816-17), La campagna di Francia del 1792 e L’assedio di Magonza del 1793 (1822).

Fin dall’introduzione, in cui la lettera fittizia di un amico fittizio invita lo scrittore ultrasessantenne a raccontare la sua vita e la genesi delle sue opere, tutto è fiction: spesso l’io narrante parla del se stesso di un tempo in terza persona («il bambino»), e perfino il cosiddetto idillio di Sesenheim, l’esperienza “reale” su cui si baserebbe il Werther, è costruito come scoperta parodia del Vicario di Wakefield. La libertà con cui Goethe usa gli artifici della letteratura è assoluta, quasi vertiginosa: con la sola forza dell’affabulazione può trascinare il lettore per pagine e pagine di annotazioni sulle miniere di alunite di Dutweil o in un saggio di riscrittura romanzesca della storia biblica di Giuseppe e i suoi fratelli (spunto più tardi messo a frutto da Thomas Mann). Lontanissimo dall’intenzione di erigere un monumento a se stesso, Goethe si inventa un romanzo di formazione che tiene insieme l’idealismo dell’Agatone di Wieland e la comicità dell’amato Tristram Shandy, più vicino alle stramberie del Nipote di Rameau (che peraltro aveva da poco tradotto e pubblicato, precedendo lo stesso Diderot) che alle tormentate Confessioni di Rousseau. L’eroe è, sì, il più grande poeta della Germania, protagonista di una Bildung eccezionale ed esemplare; ma ci viene presentato di volta in volta come un bambino dispettoso, uno studente perdigiorno con un debole per gli scherzi e i travestimenti, e, in amore, un assai poco olimpico gaffeur. L’io biografico è sempre dialettizzato, trattato cioè come un personaggio tra gli altri, il punto di vista dei quali non è meno importante: «Quando venni al mondo fui considerato morto», recita una delle prime frasi, «e solo con reiterati sforzi riuscirono a farmi vedere la luce. Questa circostanza, se procurò grande pena ai miei, risultò vantaggiosa per i concittadini, perché il nonno, il podestà Johann Wolfgang Textor, colse l’occasione per assumere un ostetrico e per introdurre o rinnovare la formazione delle levatrici; il che andò, in seguito, a vantaggio di molti nascituri». Anche la sua morte prematura, lascia intendere Goethe, non sarebbe stata una perdita irreparabile, anzi avrebbe comunque portato un piccolo contributo al perpetuo mutamento del mondo.

Tale resta, per 750 pagine, il tono dominante di una narrazione in cui lo Streben faustiano non teme mai di impantanarsi nella prosa del mondo. Anzi, quasi a rispondere alla critica di Novalis, il nuovo romanzo è ancora più «prosaico e moderno» del Meister, sebbene non perda mai di vista l’innalzarsi dell’individuo verso sfere di attività sempre più ampie. Illuminato dall’interesse di tale narratore, tutto prende vita, al punto che il mondo di un giovane borghese del tardo settecento appare così ricco di occasioni e di potenzialità da far impallidire al confronto la nostra modernità globalizzata.

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